Molto spesso capita, a noi donne, di passare momenti difficili, di perderci, di disconnetterci dalla nostra natura, quella “selvaggia”.
Tocchiamo il fondo.
E va bene aver toccato il fondo, perché è lì che si trova il terreno migliore per seminare e far crescere qualcosa di nuovo.
Ma poi viene il tempo di andare oltre la sopravvivenza, di guarire e fiorire.
Come rifiorire?
Come ritrovare noi stesse?
Una buona soluzione:
L’ESERCIZIO DELLA SOLITUDINE INTENZIONALE
(da il libro Donne che Corrono coi Lupi)
[ A me risuona così tanto, ed ha funzionato, che non potevo non condividerlo. ]
Impara a lasciare temporaneamente il mondo per andare in uno stato di solitudine.
Molto tempo fa la parola inglese alone, solo, era composto da due parole all one. Essere all one significava essere nell’unicità, essenzialementeo temporaneamente. E’ proprio questo il fine della solitudine.
E’ la cura per il logorio tanto diffuso tra le donne moderne, quella che consente, come recita un antico detto, di “balzare in sella al cavallo e cavalcare in tutte le direzione”.
Solitudine non è assenza di energia o di azione, come credono alcuni, ma piuttosto un dono di provviste selvagge a noi trasmesse dall’anima.
Nei tempi antichi, come riportano medici e guaritori, religiosi e mistici, la solitudine intenzionale era un palliativo e anche una misura preventiva.
Vi si ricorreva per sanare la fatica e prevenire il logoramento. Era usata come oracolo, un modo per ascoltare il sé interiore, per sollecitare consigli e guida, impossibili udirsi nel frastuono della vita quotidiana.
Se l’esercizio della solitudine intenzionale diventa regolare, favoriamo una conversazione tra noi e l’anima selvaggia, che si avvicina alla riva. Questo lo facciamo non soltanto per essere “vicine” alla nostra natura selvaggia, ma anche per porre domande e per l’anima di darci consigli.
Come si fa a richiamare l’anima?
In molti modi: con la meditazione, o nei ritmi della corsa, del canto, della scrittura, della pittura, della composizione musicale, con visioni di grande bellezza, con la preghiera, la contemplazione, i riti, i rituali, l’immobilità, la quiete, perfino con umori estatici.
Sono tutte chiamate psichiche che invitano l’anima nella sua dimora.
Peraltro è consigliato di ricorrere a metodi che non richiedano supporti né posti speciali, da compiere agevolmente in un minuto o in un giorno. Si tratta quindi di usare la mente per chiamare l’anima-sé.
Tutte abbiamo uno stato mentale familiare in cui realizzare questo genere di solitudine.
Per me, la solitudine è una sorta di bosco ben ripiegato che porto con me ovunque, e che srotolo attorno a me quando ne ho bisogno. Siedo ai piedi dei grandi alberi della mia infanzia. Da questo luogo privilegiato propongo i miei interrogativi, ricevo risposte, poi arrotolo di nuovo il bosco, riducendolo alle dimensioni di un bigliettino d’amore fino, alla prossima volta. L’esperienza è immediata, concisa, istruttiva.
Per la verità, l’unica cosa necessaria per la solitudine intezionale è la capacità di spegnere tutte le distrazioni.
Mescolandoci con l’anima brilliamo, desideriamo affermare i nostri talenti.
Ed è questa unione breve, anche di un istante, ma intenzionale, che ci aiuta a vivere la nostra vita interiore; invece di seppellirla nella vergogna, nella paura, nelle insicurezze, nel letargo, nella compiacenza o nelle scuse.
Fai in modo che la tua vita interiore fluttui, brilli, divampi all’esterno affinchè tutti possano vedere.
Oltre a darci informazioni si questioni che vogliamo vedere meglio, la solitudine può consentirci di valutare il nostro operato nella sfera prescelta.
Con il tempo, e con la pratica, vi ritroverete a proporre i vostri personali quesiti all’anima. Vi capiterà di avere una sola domanda, o di non averne affatto e di provare semplicemente il desiderio di riposare sullo scoglio accanto all’anima, per respirare insieme.